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 Nr.15 del 14/07/2008
 
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To beat: Battere
Beati, battuti, sconfitti: questa era la definizione che Kerouac usava per la sua generazione di artisti, scrittori, poeti. Una visione lungimirante


   Al centro Ginsberg con alla sua destra Burroughs


Gli anni cinquanta furono per l’Italia gli anni della ricostruzione, del tirarsi su le maniche, del ripulire i mattoni con le unghie rotte.
Per l’America, facile vincitrice della Seconda Guerra Mondiale, già erano gli anni del primo consumismo, un consumismo a cui gli appartenenti del movimento Beats voltarono sdegnosamente le spalle, girando con maglioni usati, sandali, jeans di terza mano, capelli lunghi. Viaggiando con l’autostop, allontanandosi dalla società senza rimpianti. Frequentando luoghi magici come Big Sur, in una capanna sul mare, o preferendo come fece Kerouac, passare mesi in solitudine come avvistatore d’incendi in una baracca sul Picco Desolazione. Quarant’anni fa, una meravigliosa ragazza di nome Irene, mi regalò quella che a tutt’oggi è considerata la Bibbia della Beat Generation: “Sulla strada” di Jack Kerouac. Un’edizione economica della Mondatori che mi aiutò ad essere diverso, e migliore. Dopo la lettura di quel testo, diventai consapevolmente e definitivamente beat, con l’idea che la poesia doveva essere necessariamente utile, materiale di consumo, e non un semplice esercizio di stile con retrogusto di cose vecchie e inutili, dalla metrica ineccepibile, ma dal contenuto stantio, non più all’altezza né del presente, né del futuro.
I poeti della Beat Generation, e i loro maestri: Walt Whitman, Carl Sandburg, William Carlos Williams, William Auden, erano falchi della Poesia, io mi ritengo solo un tacchino che arrischia il volo ed è per questo che smetterò di parlare di me, per dare spazio ad un autore che è considerato, se non il padre, sicuramente il Guru della Beat Generation: Allen Ginsberg.
Nel 1957, Lawrence Ferlinghetti, i cui genitori erano di origini bresciane, poeta ed editore, fu condotto nella prigione di San Francisco. Il reato che gli era contestato, era quello di aver pubblicato nelle edizioni della City Light Books, la raccolta di versi “Howl” (Urlo) di Allen Ginsberg. Il giudice Horn, che si trovo a dirimere la questione, stabili che “Howl” era una denuncia contro il materialismo, il conformismo, e la meccanizzazione che minacciavano l’America moderna spingendola verso la guerra. Allen Ginsberg, apparve su tutte le prime pagine dei giornali americani più importanti. La sua raccolta di poesie, “Howl”, divenne un best seller. Era l’ultima cosa che si aspettava, l’ultima cosa che desiderasse. Umanista raffinato, poeta nato, intellettuale nella pelle, nel midollo, nel cervello, aveva idee precise sull’intento tecnico della sua poesia e sul suo mondo poetico. Non gli parve possibile, vedere tutto ignorato, scoprire che solo il contenuto più superficiale ed esteriore dei suoi versi fosse preso in considerazione e cristallizzato nella formula della rivolta e dell’anarchia. Memore forse di ciò che Ferlinghetti scrisse all’inizio della sua carriera di editore- scrittore- poeta: “Il giorno che il Times pubblica la tua foto, sei diventato negativo”. L’America di quei tempi, le cui necessità morali erano rappresentate dal risparmio, dal patriottismo, dalla virtù, e dall’igiene, che aveva alla base di tutto il denaro come modo di pensare e di essere, male si adattava a Ginsberg ed ai suoi amici, poeti e ribelli come lui. Ginsberg fuggì in India, abbandonando la certezza di una cattedra universitaria, e di un’esistenza agiata, ma conformista e borghese. Trascorse alcuni mesi a Calcutta ed altri a Benares, circondato da giovani poeti indiani “clandestini”. Li aiutò a comporre un loro manifesto poetico, e un loro decalogo: “Mai imitare la realtà di Aristotele, ma cogliere di sorpresa sotto i genitali dell’arte, la puttana realtà non smaltata. Lasciare che il mutismo esploda in parole senza rompere il silenzio. Sciogliere il furore creativo al fine di disfare il mondo artificiale, e ricominciare dal caos. Sfruttare ogni matrice dei sensi tranne quella dello scrittore”. Ginsberg fu espulso dall’India. All’India non servivano poeti, all’India servivano compratori di automobili, lavatrici, frigoriferi, televisioni.Tanti piccoli americani in miniatura. Ginsberg tornò in America più poeta che mai, ma i suoi messaggi: "Togliete le serrature dalle porte, togliete le porte dai cardini. Allargate l’area della coscienza”, non scalfirono minimamente la narcosi del benessere economico, dell’automobile, frigorifero, lavatrice, televisione, della civiltà dei consumi. La massa della piccola borghesia americana, era convinta (e lo è tuttora, come attualmente noi italiani lo siamo), che il loro era, ed è, il migliore dei mondi possibili, e considerava assurda qualunque protesta. Nessuno, aveva sentore del lavaggio mentale al quale erano quotidianamente sottoposti. Mistico, profondo, poetico, osceno, umano, sono solo alcuni degli aggettivi che possiamo usare per uno dei più grandi poeti di tutti i tempi. Ginsberg, cominciò a scrivere versi sotto l’ala protettrice di Williams Carlos Williams. Alla Columbia University conobbe Williams Burroughs, “Il fuorilegge della letteratura”, Jack Kerouac, “l’angelo desolato”, Gary Snyder, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso. Con loro si pose alla testa della Beat Generation. I suoi mentori (alcuni già li abbiamo ricordati) erano Walt Whitman, Carl Sandburg, William Blake. Il suo life style: omosessualità, droga, controcultura, e dirompenti dichiarazioni politiche, che ne fecero il bersaglio dell’Establishment di allora. Ma Ginsberg non cambiò, ne diminuì il suo carisma presso i giovani americani. Il fatto che sia rimasto sulla breccia fino alla fine dei suoi giorni dovrebbe invitarci a riflettere, così come spero vi inviti a riflettere, la lettura della sua poesia più conosciuta, dalla quale ha attinto a piene mani il nostro cantautore Guccini, quando scrisse “Dio è Morto”.
Della poesia vi proporrò solo l’inizio, paragonato a quello che si legge oggi in giro, basta e avanza.


Howl

Ho visto le menti migliori della mia generazione
distrutte dalla pazzia, affamate, nude, isteriche,
trascinarsi per strade di negri all’alba
in cerca di droga rabbiosa.
Hipsters dal capo d’angelo, brucianti per l’antico contatto
celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte,
che, in miseria e stracci e occhi infossati
stavano su a fumare nel buio sopranaturale
di soffitte ad acqua fredda, galleggiando sulle cime
della città, contemplando Jazz.
Che si squarciavano cervelli al Cielo sotto la Elevated
e vedevano angeli maomettani illuminati, barcollanti
su tetti di casermette.
Che passavano per le università con freddi occhi
radiosi, allucinati di Arkansas e tragedia,
alla luce di Blake, fra gli eruditi della guerra.
Che venivano espulsi dalle accademie come pazzi
per aver pubblicato odi oscene sulle finestre del teschio.
Che si accucciavano in mutande in stanze non sbarbate,
bruciando denaro nella spazzatura e ascoltando il Terrore
attraverso i muri.
Che erano arrestati nelle loro barbe pubiche
ritornando da Laredo con una cintura di marijuana…




Prendo congedo da voi, ringraziando chi la Beat Genration ci permise di conoscere, la saggista e scrittrice Fernanda Pivano. E con una delle frasi che più mi sono piaciute tra le tante lasciateci da Gregory Corso: “Libertà è stare all’angolo di una strada senza aspettare nessuno”.


Joe Dallera


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