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 Nr.25 del 14/12/2009
 
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Lettera a Gesù Bambino
Caro Gesù Bambino, è un anno che non ci sentiamo, il Natale scorso ti ho mandato a farti benedire, non volermene, spero che sia servito a qualcosa, che Giovanni Battista abbia compiuto il miracolo di convincerti a ritornare...


  


La torre di Babele è niente in confronto a quello che oggi succede su questo piccolo stivale. Ho provato a chiamarti al numero 0-0-D-I-O-0-0, ma risultava sempre occupato. È incomprensibile, che proprio voi non abbiate un ufficio reclami, con tutte le porcherie che avvengono su questa pallina di sterco che qualcuno chiama pianeta azzurro, manufatto da chi tu sai.
Il mio papà (che è sempre in cassa disintegrazione) mi racconta che qui il politico più sano “ci ha la rogna”, che il tuo rappresentante sulla Terra sembra più l’attore di un film e che pronuncia a reti unificate più semplicità della casalinga di Voghera.
Per fortuna il nonno è in forma come non mai, ha corrotto la commessa di un supermercato, è riuscito a duplicare la chiave di un cassonetto dove si buttano quintali di cibo ancora commestibile, ed ha messo su un mercatino dello scarto digeribile niente male.
La vecchia e saggia nonna è morta dando del “porco” ad un ministro di bassa lega. Adesso siamo nei pasticci, una delegazione di maiali l’ha denunciata per diffamazione.

Come è morta la nonna? I giornali hanno parlato di un raro fenomeno di autocombustione dovuto ad un abnorme consumo di distillato di cipolle, ma non è così. Disgustata da questa nuova “società del malessere” che la lasciava senza neanche i soldi per il tabacco da fiuto, ha inalato un’intera bomboletta di gas da camping e si è accesa un fiammifero sotto il naso. Ti lascio immaginare fino a dove si sono ritrovati i frammenti. Che sia questo quello che chiamano delocalizzazione? Povera nonna, ci teneva a distinguersi, ad essere originale. Pensava che avere l’Alzahimer fosse una cosa quasi elitaria, sai, come quei matti che i pellerossa pensavano fossero toccati da Wakan Tanka, il Grande Spirito, poi le è capitato di vedere dalle amiche una trasmissione di Bruno Vespa, è scoppiata in lacrime, ed è caduta in depressione. Il nonno è incontinente ma felice, ha scoperto che molti sardi che hanno dovuto abbandonare la propria isola a causa delle promesse di un pinocchio dal naso a spirale, si sentono come lui. Il nonno è un duro, ha fatto la guerra in Albania, per sopravvivere ha mangiato lumaconi rossi cotti non ti dico in quale liquido, e mi dice sempre di non abbattermi, che finchè ci sono pantegane c’è speranza. Il nonno è più pazzo della nonna, la scorsa settimana si è inventato il “Viva la Magra Day”, profetizzando che la Magra è un giudice, forse il solo, che istituisce processi ai quali neanche i nani possono esimersi dal presenziare. E la sentenza è uguale per tutti. Non c’è appello o lodo che tenga. Per l’occasione, il patriarca ha preparato uno spiedo con su un centinaio di ghiri, spacciandoli per lepri nane della Tasmania. Il profumo ha richiamato commensali nel raggio di dieci chilometri. Chi ha portato vino, chi pane fatto in casa, chi uova, chi salami, chi formaggio di montagna, chi grappa distillata di nascosto nei cimiteri, chi una fisarmonica, chi una chitarra, chi un attestato di anarchia, chi vecchi vinili di Brassens. Mio padre, che si era già scolato una bottiglia di “bonarda” con la scusa di controllare se sapeva di tappo, ha detto salendo a fatica sopra il tavolo: “Se il nono amante di bianca neve ha questo sapore, giuro che lo vampirizzo”. Non ti dico gli applausi.
Un vecchio boscaiolo ha dato giù di brutto alla “fisa”, mentre gli altri cantavano in coro una canzone di De Andrè, qualcosa su un giudice, alzando fino al cielo (spero che tuo Padre abbia sentito) un canto che recitava: “Un nano è una carogna di sicuro, perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del …”. È gente così, legata alla terra, agli amici, al vino, alla parola data, ai valori della Resistenza, ai bambini come me, che loro vedono come il futuro.

Caro Gesù Bambino, io che sono piccolo, che futuro avrò? Quando mi chiedono cosa farò da grande, io rispondo che non voglio diventare adulto. Ho paura. Non voglio finire crocifisso da quattro mutui. Io non ho fatto la guerra come il nonno, che si sveglia a volte di notte in preda agli incubi perché sogna i compagni di trincea morti con le budella in mano chiamando la mamma. Io non ho lavorato in una grande fabbrica come il mio papà, che ha visto troppi amici morire per un salario da fame. Morti dissanguati, morti mutilati, morti bruciati, morti di indifferenza.
Caro Gesù Bambino, io non ho la loro forza, non sono allenato alla vita. Portami con te adesso, e fai scrivere sulla mia tomba: “Strappato al male a venire”.
Ti lascio con una preghiera, di far conoscere a più persone possibili le poesie che seguono, scritte per me da un amico di mio padre, poeta per dovere, anarchico per scelta, e ateo per convinzione, che mai avrebbe voluto prendere in mano una penna per rivolgersi al tuo Vecchio. Un poeta che dice sempre che con il trilione di dollari che le giubbe blu hanno speso solo per la guerra in Iraq, si sarebbe potuto trasformare la terra in un paradiso, invece che in un inferno, che c’è qualcuno che vorrebbe mettere la Croce sulla bandiera con la quale ha minacciato di volersi pulire il sedere, e vuole il crocifisso in classe, perché i bambini imparino che fine rischiano di fare certi extracomunitari che vanno in giro a predicare: “Ama il prossimo tuo”, che tuo Padre continua a cercare il tris, mentre Satana Trimegisto lo bastona quotidianamente con full di donne nude e denari.

Caro Gesù Bambino, sai cosa ti dico, rileggendo questa lettera, ho deciso di rimanere qui. Se tu non torni, qualcuno lo deve fare il lavoro sporco. Lo devo a Iqbal, ucciso mentre inseguiva il suo aquilone, morto per difendere i diritti di tutti i suoi piccoli compagni, sfruttati fino alla consunzione. Ad Aguilita, “terminata” da un calibrato proiettile vagante, per aver fondato il movimento dei “Niños por la paz” ed a tutti i bambini scomparsi per la cupidigia di esseri che non hanno più nulla di umano.
Ora ho capito cosa intendeva dire Brecht quando ha scritto: “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”. Portati via la poesie. Valgono poco. Non pesano niente, sono solo parole, e le parole non hanno mai fermato le pallottole, ne disattivato le mine antiuomo. Se ti vien voglia di venire giù a darmi una mano, sai dove trovarmi.
Salutami la tua mamma, e tieni lontano lo Spirito Santo dalle vergini. Ciao.


PREGHIERA

Signore,
asciuga gli occhi
dei bimbi ostaggi di troppe guerre.
Stendi il nero umido velo
fra la sera e le stelle.
Domani ogni filo d’erba
avrà il suo diamante,
lacrime di un’infanzia
che meritava di più.




AGUILITA

Di che colore erano i tuoi occhi,
non lo sapremo mai,
né mai vedremo il tuo piccolo viso.
Erano meno di dieci
le righe che parlavano di te
a pagina 23 di un giornale importante.
Aguilita
bambina di anni dodici
per sua sfiga concepita in Colombia,
giustiziata all’uscita da scuola
da un “calibrato” sparo vagante.
Quanta ipocrisia in quell’articolo Aguilita,
quanta paura, della vostra innocenza
disarmata e potente.
Se mai mi è toccato in vita
di meritare un triangolo di cielo
è a te che lo offro Aguilita,
stella coraggiosa dei “Niños por la paz”
(eroi di malavoglia e di supplenza)
che ci hai lasciato meditabondi e soli
a contemplare il nero su bianco
dei nostri orrori di adulti.


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